Trump, i coyote mutanti e la battaglia per la nostra attenzione
Donald Trump e le donne seminude sulla homepage del Corriere.it hanno una causa comune. Chiunque voglia ottenere la nostra attenzione deve competere con dozzine di altri stimoli, messaggi, attività. La voglia e il tempo che abbiamo per informarci sono risorse scarse, e l’odierno brulicare di potenziali distrazioni fa della nostra attenzione un bene notevolmente più prezioso di quanto lo fosse un tempo. Con una posta in gioco più alta, la concorrenza diventa più agguerrita. Il prodotto, però, non diventa necessariamente migliore. L’idea che i lettori preferiscano la qualità al cazzeggio, all’indignazione, alle donnine svestite e agli animali buffi è un mito. La maggior parte dei lettori online non finisce l’articolo che ha cominciato a leggere, e una grossa fetta lo abbandona già dalle prime righe. I video buffi e le notizie sceme tirano più click delle analisi sulla legge di bilancio. E, diciamocelo, quanti di voi hanno seguito le gesta di Mitt Romney nella campagna elettorale presidenziale di quattro anni fa e quanti invece hanno letto più di un pezzo, o guardato un video, su Trump? Anche quelli più informati tra voi farebbero fatica a citare una proposta politica di Hillary Clinton, ma in molti sappiamo che Trump vuole costruire un muro tra gli USA e il Messico. Come mai? Perché una scemenza esagerata, proprio come quel video che avete guardato stamattina appena arrivati in ufficio. Del resto, sappiatelo: l’articolo online più letto dell’Economist l’anno scorso (e dico l’Economist, eh) parlava di lupi, cani e coyote che si accoppiano tra di loro dando vita a una specie mutante.
In politica le cose stanno peggio che in altri settori. Certo: se il consumatore medio vuole robe leggere, sceme o divertenti (e molti tra i più esigenti sono consumatori medi almeno per una parte della loro giornata), altri vogliono capire le cose per davvero, approfondire, imparare. A questa domanda di nicchia rispondono prodotti di nicchia, che fanno spesso fatica a resistere, ma a certe condizioni ce la fanno. Ma in un sistema politico dove il vincitore si prende tutto, le nicchie non hanno senso di esistere. Si sta o di qua o di là, l’offerta non può frammentarsi perché l’unico scopo del gioco è aggregare quanta più gente possibile. Per sopravvivere bisogna essere più mainstream del mainstream. Le elezioni presidenziali americane, ad esempio, funzionano così. Solo un candidato diventa presidente, e per vincere basta prendere un voto in più degli avversari.
Funziona così anche il referendum costituzionale di dicembre: non c’è quorum, ci sono solo due possibili risposte. Basta un voto in più, di qua o di là, e vi svegliate con una Costituzione che è in un modo o in un altro. Verrebbe da pensare che la Costituzione, e il dibattito pubblico sulla sua modifica, appartengano al regno delle cose sobrie e serie, quello dei libri di diritto costituzionale, dei ragionamenti articolati o, quantomeno, degli articoli dell’Economist. Invece, a sentire i partigiani delle due fazioni, siamo più dalle parti dell’home page del Corriere della Sera (tra i dieci articoli più letti del Corriere online questo mese non c’è una sola notizia importante: una vita su Instagram tra feste e alcol, Simona Ventura che fa causa a della gente, Grande Fratello VIP, una povera ragazza che muore facendosi un selfie su una bici). Per convincere la gente ad andare a votare, e a votare in un senso o nell’altro, bisogna ingaggiare una battaglia potente contro disattenzione, pigrizia, scarso interesse per le questioni complicate. Serve una grande opera di persuasione.
Come eccitare le folle con Aristotele
Aristotele spiegava che la persuasione può avvenire in tre modi: col logos, cioè facendo uso di argomenti razionali che riguardano il merito della questione; con l’ethos, cioè facendo appello al carattere, alla qualità e alla credibilità dell’oratore; e col pathos, cioè suscitando l’emozione del pubblico.
Le opzioni a disposizione dei tifosi del Sì e del No devono fare però i conti con una situazione complicata. L’ethos dei politici ha uno scarsissimo appeal, di questi tempi, a prescindere dal partito. I Cinquestelle possono ancora contare, tra i loro elettori e simpatizzanti, su un ampio credito di fiducia. Ma non è abbastanza. Renzi gode della simpatia di alcuni. Ma non è abbastanza (se ne è accorto lui stesso a un certo punto della campagna). Per quanto riguarda il logos, poi, si sa che ragionare nel merito è la scelta più faticosa. Il problema di questa riforma è che si occupa di questioni piuttosto tecniche. Le costituzioni sono piene di cose importanti e nobili, certo, e parecchi dibattiti costituzionali riguardano questioni cruciali per la cultura e i valori di un paese. Ma non è questo il caso: che il Senato abbia un veto su tutte le leggi o solo su alcune, e a certe condizioni, è una questione interessante ma di dettaglio. Le soluzioni a confronto hanno pregi e difetti, e misurare il saldo positivo o negativo degli uni sugli altri è un esercizio difficile e sottile. Insomma, il logos si muove a fatica, nell’incertezza, finendo per propendere lievemente per il sì o lievemente per il no, senza che nobili principi vengano compromessi in alcun caso. Non proprio la situazione ideale per acchiappare l’attenzione di milioni di elettori.
Non resta che il pathos, dunque. Cioè fare appello alle emozioni dei cittadini. Le emozioni modificano il nostro giudizio, era chiaro già in Grecia duemila e quattrocento anni fa. Quando uno si sente amichevole e calmo, dice Aristotele, si forma un’opinione; quando si sente arrabbiato o ostile si forma un’opinione completamente diversa o la stessa ma con diversa intensità. Ma che emozioni può suscitare il fatto che sulle professioni e sui porti Stato e Regioni non avranno più una competenza concorrente ma deciderà solo lo Stato? Certo, la contrapposizione tra centralismo e federalismo in passato ha creato parecchia agitazione. Ma evidentemente non è più un argomento alla moda, o quantomeno non è abbastanza eccitante da distogliere gli italiani da occupazioni più divertenti. Del resto quando il federalismo era trendy la vita era parecchio più noiosa, non c’erano né Facebook né l’iPhone: capitava pure che, per ammazzare il tempo, ci si potesse accalorare sulle competenze legislative della Liguria.
Pensate ai grandi dibattiti costituzionali che in questi mesi sono stati spesso al centro della campagna elettorale americana: l’aborto, il matrimonio gay, il diritto delle società commerciali di fare donazioni ai candidati politici, il diritto a portare armi da fuoco. Sono questioni che chiamano in causa alcune delle convinzioni più profonde e delicate di una società, e che muovono grandi passioni oltre che valutazioni difficili. Che il CNEL esista o meno, oppure che i Senatori siano eletti dai cittadini o dal Consiglio Regionale sulla base dell’indicazione dei cittadini, non sono poi questioni così coinvolgenti. Che fare dunque se il pathos è la strada obbligata per il marketing referendario, ma le questioni in gioco non suscitano grandi sentimenti? La risposta la sapete già e l’avete da settimane davanti agli occhi: esagerare a dismisura.
Hit parade delle cattive emozioni costituzionali
Ecco quindi la classifica a rovescio, dalla meno grave alla più grave, delle cattive emozioni messe in circolo per questo referendum.
10. L’IRREQUIETEZZA
Renzi e il fronte del Sì sono per il cambiamento. Come dice la signora dello spot (facilmente preso in giro da quelli di Gazebo), “se voti No, non cambia niente”. Che è un dato di fatto innegabile, per quanto riguarda la Costituzione. Razionalmente, però, è una sciocchezza. Cambiare è bene solo se si cambia per il meglio. Esistono anche, come sanno tutti, i cambiamenti in peggio. Lo scontento automatico di tutti per come vanno le cose in politica induce a pensare che un cambiamento non può che essere un cambiamento positivo. Ma ovviamente non è detto che sia così. L’irrequietezza, il provarci, il mettersi in gioco – emozioni di cui Matteo Renzi ha fatto un brand – non sono emozioni di per sé cattive. Anzi. Il progresso, i buoni progetti, i grandi miglioramenti di una società (ma anche della vita personale) hanno bisogno di energia, intraprendenza e, sì, irrequietezza. Ma il cambiamento fine a se stesso è uno specchietto per le allodole e un trucco del pathos. Il più blando e innocuo, tra quelli usati in questa campagna elettorale, ma pur sempre un trucco.
9. L’ESASPERAZIONE
Quando non ci si mette d’accordo, è forte la tentazione di forzare una decisione. Purché si decida, insomma, purché si faccia presto. La gente si stufa dell’inefficienza, dei tempi lunghi, delle perdite di tempo. Cavalcando questa emozione, i sostenitori del Sì se la prendono coll’esasperante ping pong delle leggi tra Camera e Senato. Ma davvero l’Italia ha bisogno di più leggi, approvate più velocemente? Probabilmente no, anche se è vero che l’attuale bicameralismo paritario è una duplicazione di funzioni di scarsa utilità. Una democrazia che sappia decidere è una cosa buona, ma l’esasperazione per i tempi di approvazione delle leggi è un’emozione esagerata e in parte fuorviante.
8. L’INSICUREZZA
I sostenitori del No sono molto più rumorosi di quelli del Sì. Verrebbe da pensare che quelli per il Sì sono una maggioranza (o quasi maggioranza, vedremo) silenziosa: meno convinti delle proprie ragioni, meno propensi alle esternazioni pubbliche, meno accalorati. Una delle emozioni più diffuse tra loro è probabilmente l’insicurezza: temono che il fallimento della riforma, e quindi del Governo Renzi, farà tornare l’Italia nel periodo di instabilità e incertezza e traballamento finanziario da cui avevamo cominciato a venir fuori. C’è da dire che la campagna del Sì non gioca moltissimo su questo tema, per questioni tattiche. E forse c’è del vero in questo timore dell’instabilità. In ogni caso è probabilmente un sentimento esagerato.
7. Il DISPETTO
Chi ha un bambino piccolo sa che a volte una richiesta è solo uno strumento per richiamare l’attenzione, protestare, ricordare al mondo la propria presenza. In quel caso, soddisfare quella richiesta dando al bambino la cosa che chiede non è una soluzione. Perché chiederà una cosa ancora migliore, e poi ancora e poi ancora. Non vuole davvero quella cosa, intendiamoci. Vuole solo dire “Ehi, eccomi, sono qui”. E’ una cosa normale, anche se a volte fa spazientire i genitori. Ma quando adulti pagati per trovare soluzioni ai problemi fanno la stessa cosa, e aizzano gli elettori a comportarsi allo stesso modo dei bambini, abbiamo un problema grosso. Tutti le leggi sono imperfette. Le leggi elettorali, o le regole del bicameralismo, hanno pregi e difetti. La sinistra del PD ha avanzato richieste, fatto negoziati interni, ottenuto modifiche. E ogni volta ha ricominciato a chiedere una cosa in più. Non è uno spettacolo piacevole.
6. IL FASTIDIO
Il dibattito pubblico è infestato dal fastidio per l’interlocutore. Secondo questa malattia della logica, una cosa non è mai buona o cattiva di per sé, ma solo se proviene da una persona che ci piace o ci dispiace, solo se avvantaggia una categoria che ci fa simpatia o che ci infastidisce. Anche la campagna per il referendum ovviamente trabocca di fastidio. Fastidio per i politici, che è sempre bene “mandare a casa” in numero adeguato. Fastidio per i professori, che sono staccati dalla realtà e non capiscono cosa è bene per la gente comune. Fastidio per la burocrazia, le élite, le clausole lunghe (“L’art. 70 passa da 9 a 439 parole!!!”), i consiglieri regionali, le banche, la finanza, le giovani donne ministro. Il fastidio è così onnipresente nelle parole e nei pensieri di tutti che la riforma si perde del tutto di vista. La sfida è diventata una sfida tra persone, non tra proposte.
5. LA MALAFEDE
La campagna per il No invita a non fidarsi delle ragioni del Sì. Dicono: l’elezione indiretta dei Senatori non serve a rappresentare gli enti territoriali, ma a regalare l’immunità a 95 politici locali! E i referendum propositivi, che prima non c’erano, non sono forse un rafforzamento della democrazia diretta? Dicono: è solo un trucco, poi non saranno attuati, non li vogliono davvero! Se si spinge sul pedale della sfiducia e si presume la malafede di tutti gli altri, senza mostrarne le prove, nessuna discussione nel merito può mai funzionare. E’ vero che una riforma costituzionale è più forte se raccoglie il consenso di più forze politiche, ma in una società in cui non c’è la minima fiducia tra gli avversari politici il largo consenso è impossibile. Prima ancora delle regole istituzionali ed elettorali, una democrazia funzionante ha bisogno di un minimo livello di fiducia e buona fede nel dibattito. Gridare alla malafede altrui senza prove (o darsi alla malafede in prima persona, con argomenti che non hanno nulla a che vedere con la riforma) impedisce una discussione corretta.
4. IL SOSPETTO
In un crescendo di sentimenti tossici, l’emozione più vicina alla precedente è il sospetto, la sindrome paranoica, la teoria della cospirazione. In questo eccellono quelli del M5S. Chi c’è davvero dietro la riforma? Ovvio: le banche, la grande finanza, i grandi manager, l’uomo nero. Malvagi che voglionoistruggerci. La cultura del sospetto e della paranoia non ha nulla a che vedere con una discussione oggettiva. Quando si è paranoici, si nega anche l’evidenza. Così se si è andato predicando che quello di Monti era il governo delle banche e della finanza e poi si scopre che Monti vota No al referendum, basta trovare un altro cattivo – su un manifesto per il No c’è il disegno di Marchionne – e la propria teoria paranoica resta intatta. Se il nostro interlocutore è coinvolto in una cospirazione, potrà mai valutare obiettivamente i fatti o gli argomenti che gli proponiamo? No, ovviamente. La mentalità paranoica e sospettosa incattivisce, e impedisce di cambiare idea e di farla cambiare agli altri. La discussione è inquinata alla base e qualsiasi progresso diventa impossibile.
3. IL DISPREZZO
Facciamo quest’ipotesi, che credo sia un’ottima approssimazione della realtà: “La riforma costituzionale non risolverà i problemi importanti dell’Italia, né ne creerà di nuovi. Non renderà le leggi sensibilmente migliori né peggiori. Non ci porterà fuori dalla crisi, né ci farà piombare nel baratro. Ha dei pregi e dei difetti, e il bilancio finale, in misura non enorme è a favore dei…”. Completatela come preferite, il punto non cambia. Se si ragiona così, il proponente dell’opinione opposta (del PD o del M5S, professore o analfabeta, ricco o povero) sarà semplicemente uno che – a vostro avviso – sbaglia. Non uno sbaglio enorme, forse. Ma sbaglia. O magari difende interessi che voi credete siano subordinati a interessi più importanti. In entrambi i casi, la circostanza merita poco pathos. E forse lo scarso interesse dei più. Per creare una folla di oppositori agguerriti l’errore non basta, la differenza di opinione è un nonnulla. Ci vuole il disprezzo. L’avversario è un corrotto, un venduto, un idiota, un servo del potere. Si usano nomignoli, si parla di “schiforma”, e qualsiasi persona esprima un’opinione contraria (come Roberto Benigni, che si è detto favorevole al Sì) o si faccia persino vedere vicino a un avversario (come Beatrice Vio, ospite di Renzi alla cena di stato alla Casa Bianca) diventa il bersaglio di offese e odio, un nemico da distruggere. Qui siamo al fondo del barile.
2. LA RABBIA
Ma sono due le emozioni più basiche da cui sgorga il disprezzo per gli altri. La prima è la rabbia. Una rabbia alimentata dall’evocazione di nemici ingigantiti o del tutto inventati. Qualsiasi cosa – qualsiasi – diventa motivo di indignazione così feroce da far desiderare una reazione estrema, distruttiva. La rabbia acceca, è impossibile ragionare con qualcuno arrabbiato. Qualsiasi fatto o argomento non potrà nulla. La rabbia non vuole verità o ragionevolezza, ma solo sfogo. Persino una normale cena di stato, un evento a cui un capo di governo è tenuto a partecipare per gestire i buoni rapporti con gli Stati Uniti, diventa l’occasione per invidia, rabbia e odio. Leggete queste parole dal blog di Grillo “Oggi negli Stati Uniti è arrivato Renzi, accolto da star con tappeto rosso, rullo di tamburi e inni nazionali. Questa sera sarà ospitato a cena da Obama dove mangerà agnolotti e braciole di maiale in pregiati piatti di porcellana nel giardino sud della Casa Bianca, sotto una tensostruttura decorata con lampadari, bicchieri di vetro fatti a mano, sottopiatti in stile fiorentino con decorazioni in oro, e con composizioni floreali che creeranno un`atmosfera rinascimentale”. E prosegue con questo tono, per aizzare le più basse emozioni dei lettori. Non c’è un solo argomento nel merito dei rapporti tra Italia e USA, ad esempio, o sulla riforma costituzionale. Ma conclude “Il 4 dicembre è vicino”.
1. IL TERRORE
L’altra fonte, forse la principale, di tutti i peggiori sentimenti politici del momento è il terrore. Evocare conseguenze catastrofiche, devastanti, irreversibile. Spaventare tutti, il più possibile. Ma che male potrà mai fare una clausola malfatta su una competenza regionale? Forse è una ragione per bocciare la riforma, forse no, ma insomma, non sarà questo grande dramma. E invece no. Dietro l’angolo ci sono l’eversione, la deriva autoritaria, la fine della democrazia. Ma ci sono anche (cito da alcuni volantini del Comitato per il No): la “facile entrata in guerra”, tangenti, devastazione del territorio, “privatizzazioni selvagge”. Se passa il Sì (cito sempre da alcuni volantini del Comitato per il No), “il diritto a una pensione dignitosa verrà cancellato”. Sono preoccupazioni fondate? Ovviamente no, la riforma non ha nulla a che vedere con queste cose. Sono modi per creare terrore. La cosa più deprimente è che il Presidente del Comitato che stampa questi volantini è Gustavo Zagrebelsky.
Votate come vi pare, ma votate senza cattivi sentimenti.